Il nuovo ordine mondiale creato dalla guerra del 5G

La tecnologia cinese per le reti di quinta generazione non è sicura, sostengono gli Usa. Rinunciare a Zte e Huawei costa troppo, dicono gli operatori. E in questo scontro la soluzione migliore potrebbe essere quella appena varata dal governo italiano

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Josep LAGO / AFP
5G

La guerra del 5G lascerà un mondo di macerie, ma da quelle macerie potrebbe nascere un nuovo ordine tecnologico globale. All’indomani degli incontri che Mike Pompeo ha avuto a Roma e della visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte al laboratorio di ricerca di Ericsson a Genova, non sfugge agli analisti, agli operatori e ai produttori che sullo sfondo del braccio di ferro tra Huawei e gli Usa si stanno delineando strategie e scelte politico-commerciali che impatteranno in maniera determinante sullo sviluppo di tre grandi aree:  Stati Uniti, Europa e Asia.

Il segretario di Stato americano ha ribadito la preoccupazione di Washington per l’utilizzo di tecnologia cinese (Huawei e Zte su tutti) in infrastrutture strategiche per la sicurezza in un Paese alleato della Nato e Conte ha illustrato le peculiarità del decreto legge per la creazione di un perimetro della sicurezza cibernetica. Ed è questo strumento che – al di là delle uscite estemporanee – è considerato da tutti “l’approccio più razionale”, come sottolineano le fonti che Agi ha ascoltato per analizzare lo scenario.

“E’ vero che gli ostacoli posti dagli Usa nei confronti dei cinesi possono essere letti come una forma di guerra industriale ed economica” dice Jean Pierre Darnis, consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali, responsabile del programma Tech-Rel e autore del volume ‘Geopolitica del digitale’ che sarà presentato a novembre, “ma a questa lettura ne va aggiunta una politica e di sicurezza perché i dubbi sulla gestione dei flussi di informazioni non sono stati fugati in modo netto e mantenere la sovranità di queste informazioni offre garanzie di sicurezza, anche in termini di tutela della democrazia”.

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FABRICE COFFRINI / AFP
Un'antenna per il 5G

Darnis rileva che se negli Stati Uniti sul tema della sicurezza c'è un approccio bipartisan (è recente la proposta di legge al Congresso per un piano di investimenti da un miliardo di dollari per far piazza pulita di tutte le infrastrutture di telecomunicazioni di Huawei nelle aree rurali), anche l’Europa ha cominciato a parlare con una voce sola. Lo ha fatto poco più di un anno fa sul fronte della privacy con il Gdpr e lo sta facendo da tempo sul fronte tecnologico con il varo del sistema satellitare Galileo che rappresenta una valida alternativa al monopolio del Gps statunitense “ed è il primo caso in cui gli Stati Uniti hanno riconosciuto la Commissione europea come la controparte che li ha costretti a sedere al tavolo del negoziato”.

“E’ difficile gestire questa partita sapendo che aziende cinesi hanno investito e creato posti di lavoro in Europa” dice Darnis, “ma io un pensiero radicale lo farei anche perché uno sviluppo tecnologico così accelerato come quello di questi anni ha creato problemi di democrazia. Rinunciando alla tecnologia cinese, l’Ue potrebbe varare importanti piani di investimenti per sviluppare quella già a disposizione di aziende europee come Ericsson e Nokia e stimolare l’attività in ricerca e sviluppo dei singoli Paresi così da creare un ecosistema indipendente e andare verso una forma di spartizione tecnologica in tre sfere: americana, europea e cinese”.

Una ipotesi respinta dagli operatori come un mero esercizio teorico. “In un mondo globale pensare di andare verso realtà autarchiche anche solo in chiave europea è una follia” dice una fonte di un operatore di telefonia mobile che ha chiesto di restare anonima, “una follia che non tiene conto dei monumentali costi che le aziende devono sostenere. Bisogna fornire gli strumenti per affrontare i rischi che vengono non solo dalla Cina, ma da ogni parte. Dovrei fidarmi dell’americana Cisco più che della cinese Huawei o della stessa Ericsson solo perché è europea?”.

Ma sono ovviamente i costi a preoccupare maggiormente gli operatori. Uno studio recente di EY stima che, tra le spese per le licenze e l’installazione delle reti 5G e di quelle in fibra (una parte delle quali è funzionale al potenziamento dei collegamenti terrestri delle reti mobili), gli operatori dovranno dedicare al 5G entro il 2025 risorse per circa 25 miliardi di euro solo in Italia. Si tratta di una cifra molto significativa considerando che nel frattempo non potranno smettere di estendere, modernizzare e mantenere le reti esistenti, fisse e mobili.

A fronte di questo sforzo, si prevedono ritorni molto significativi per il sistema-Paese, pari a circa lo 0,3% del PIL all’anno in media per 15 anni a partire dal 2020.

Ciò significa un impatto positivo tra 5 e 6 miliari di euro l’anno, tenendo conto sia dei maggiori investimenti generati dalle piattaforme, sia dei risparmi conseguenti all’utilizzo. L’impatto positivo previsto è di circa 80 miliardi di incremento del PIL nell’arco di 15 anni. Questo scenario va però letto alla luce dei possibili effetti della restrizione ai fornitori di tecnologie 5G cinesi che, secondo gli operatori, si tradurrebbe in un ritardo compreso tra un anno e un anno e mezzo e una spesa di 4-5 miliardi.

Secondo i produttori cinesi il motivo per cui Trump ha scatenato questa guerra è l’aver realizzato che se l’Europa andrà avanti si troverà, insieme con l’Asia, in una situazione di vantaggio competitivo rispetto agli Usa. “Quello che è successo” dice una fonte anonima “è che gli americani si sono guardati intorno e hanno scoperto che non ci sono aziende americane che lavorano sul 5G e per questo hanno cominciato a premere sugli alleati, agitando lo spettro della sicurezza”.

“Le società cinesi”, fa sapere Zte, “si sono già dimostrate affidabili, hanno portato enormi investimenti e creato occupazione. Bloccarle sarebbe uno choc per il mercato del lavoro e per l’economia italiana. Non sarebbe una decisione saggia affrontare il costo complessivo dello stop alla seconda economia più importante del pianeta”.

Un monito nel quale gli operatori riconoscono le conseguenze innanzitutto economiche di passare a una sorta di ‘monopolio europeo’. “Già ora, per ovvie ragioni, la tecnologia di fornitori europei costa tre volte più di quella cinese” dice un operatore, “se fossero gli unici ammessi sul mercato, potrebbero arrivare a farsi pagare dieci volte tanto”.

I produttori cinesi sostengono che la loro tecnologia è di 12-18 mesi più avanti di quella europea e che i prezzi accessibili sono una conseguenza di una concorrenza equa, ma secondo Darnis i dubbi sulla sicurezza non sono del tutto fugati. “Se si vanno a vedere le posizioni britanniche e francesi su questo dossier” dice, “c’è una cautela molto forte perché non si possono affatto escludere ingerenze nelle capacità di controllo dei dati e dei flussi di informazioni che possono avere rilevanza commerciale o di sicurezza, anche nazionale”.

Un punto su cui gli operatori non concordano: quello della sicurezza è solo uno schermo dietro cui nascondere una guerra commerciale, sostengono. “Perché il 5G e non il 4G?” chiede retoricamente una fonte, “se vuoi bloccare una città o una istituzione finanziaria lo puoi fare già ora. Se la Cina volesse sferrare un attacco cibernetico devastante contro gli Stati non avrebbe bisogno di aspettare il 5G. Già ora gli operatori gestiscono e respingono ogni mese migliaia di attacchi alle reti”.

Ma da un punto di vista meramente tecnico, sarebbe possibile chiudere la porta al 5G cinese e quanto costerebbe? Su questo operatori e produttori sono unanimi: non è una strada percorribile. Di fatto le antenne 5G userebbero le infrastrutture già esistenti di 4G e 3G e installare, ad esempio, una antenna 5G di Ericsson su un sito 4G di Huawei non è possibile. Bisognerebbe smantellare tutto e sostituirlo con tecnologia di un unico produttore con costi che, secondo Zte, sarebbero troppo grandi da sostenere per un Paese come l’Italia, dove la rete di quarta generazione non è ancora completa e dove gli operatori hanno già sostenuto spese importanti per le gare di assegnazione. Basti pensare che in Italia esistono tra le 15 e le 20 mila stazioni Huawei e che sostituirle tutte comporterebbe una spesa enorme e circa tre anni di tempo.

Un dato contestato in uno studio commissionato da Ericsson a Strand Consult, secondo cui gli operatori devono comunque aggiornare le proprie reti se desiderano il 5G, indipendentemente dal fatto che utilizzino Huawei, Zte o un produttore occidentale. Vale a dire che c'è un costo sommerso per gli aggiornamenti di rete che deve essere sottratto dal costo totale dell'uso di Huawei. La maggior parte delle reti europee ha già 3-5 anni e deve essere sostituita, stiamo parlando del 70–80 per cento dell'attrezzatura esistente, indipendentemente dalla decisione politica o dalla scelta del fornitore.

Negli ultimi 3 anni gli operatori di telefonia mobile hanno acquistato apparecchiature per reti di accesso radio (RAN) per 8,75 miliardi  di dollari (circa 2,9 miliardi all'anno). Il 40% di questa apparecchiatura è stata acquistata da Huawei e Zte. Una stima prudente suggerisce che la sostituzione delle apparecchiature Huawei e ZTE acquistate dal 2016 (che probabilmente possono essere aggiornate al 5G) costerà 3,5 miliardi di dollari, un importo paragonabile a quello di 14 mesi di acquisti totali di infrastrutture radio in Europa, un numero esiguo, secondo il rapporto Strand, sia per l'Europa che per il mondo.

Se alla fine del 2017, l'85% della popolazione in Europa (465 milioni di persone) aveva almeno una sim, il costo effettivo per sostituire le apparecchiature cinesi è di 3,5 miliardi per le apparecchiature non aggiornabili: circa 6,50 euro a consumatore.

La vera svolta, è il parere quasi unanime, può venire dal decreto legge approvato il 19 settembre il cui scopo è definire il perimetro di sicurezza cibernetica nazionale e garantire un elevato livello di sicurezza delle reti, dei sistemi informativi e dei servizi informatici di Pubbliche Amministrazioni, enti ed operatori privati nazionali. Tra i temi centrali che il decreto prende in esame c’è lo sviluppo del 5G in un ambiente sicuro che tenga conto anche dello scenario geopolitico internazionale per garantire la sicurezza di tutto il Sistema-Paese. Il decreto riconosce al Presidente del Consiglio la facoltà di disattivare, “totalmente o parzialmente, uno o più apparati o prodotti impiegati nelle reti e nei sistemi o per l’espletamento dei servizi interessati” qualora vi sia un “rischio grave e imminente per la sicurezza nazionale”.

La chiave del 5G in mano al governo, insomma: una soluzione che piace a molti. “Ci dobbiamo fidare di tutti e non ci possiamo fidare di nessuno” dice un operatore, “bisogna mettere in piedi tutti i meccanismi per garantire la sicurezza delle reti a prescindere dalla generazione di sviluppo e dal produttore. E’ l’unica strada possibile”.

 



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